15 Febbraio 2022
Don Canelli, il prete che fece cantare il gregoriano ai contadini
La situazione sociale in città e nella provincia non era mai stata florida. Il territorio nella sua globalità versava in una situazione di grave disagio, miseria e disoccupazione. Nel territorio di Croce Santa, fuori del giro esterno della città, abitavano tante famiglie numerose che mancavano di pane; molte madri non riuscivano neanche ad allattare. Erano contadini provenienti da posti diversi della Puglia e dintorni con una famiglia numerosa alle spalle, abituati ad essere solo forza lavoro per i loro padroni. Tra loro dominava una tendenza filocomunista.
Don Canelli, appena giunto nel 1927 nella nuova parrocchia, decise di ampliare i piccoli vani della chiesetta per le celebrazioni e per l’accoglienza di tanti piccoli affamati, facile preda della delinquenza minorile e della mortalità infantile. Essendo povero e avendo una parrocchia con un patrimonio inesistente, venne aiutato dai suoi collaboratori laici di Sant’Antonio Abate e dal Vescovo Mons. Oronzo Durante ad ottenere dal Comune la concessione gratuita di un terreno vicino alla chiesa per costruire. Per intrattenere quei piccoli in parrocchia ed evitare che stessero per strada, usava mille piccoli espedienti. Per esempio, preparava l’albero di Natale ponendovi vestitini, calze, scarpette, che però consegnava ai piccoli poveri in forma di premio, quasi se li meritassero, per evitare che si sentissero umiliati. Si avvicinava loro con tenerezza e compassione e lo si vedeva spesso piangere perché i loro nudi piedini erano così paonazzi da non potersi riconoscere più il vero colore della pelle. Nel suo commuoversi manifestava la compassione di Dio che si era fatto vicino alla loro vita. I bambini a loro volta, calamitati dalla sua persona, si affezionavano e lo aiutavano con le loro manine a riempire con pietre e legna i basamenti del terreno da edificare. Ai poveri, per far sentire la chiesa come “casa propria”, chiedeva un gesto semplice di appartenenza. Ad esempio, due uova, qualche manciata di olive o il lavoro di un’ora per far avanzare la nuova costruzione. A chi non aveva nulla chiedeva un gesto di simpatia e di affetto. Così con la bontà e il sorriso conquistava tutti. Questo atteggiamento di grande paternità e tenerezza apriva il cuore di quei contadini che andavano a confidargli la loro storia dolorosa e il loro desiderio di dignità e riscatto. Don Felice inoltre riuscì nell’impensabile. Aiutato dalla nipote Rosina Pazienza, maestra di musica, trasformò quei contadini marxisti analfabeti con le mani ruvide e la schiena pezzata, in cantori di canto gregoriano in latino per rendere più partecipata e bella la loro celebrazione liturgica. Ma con quella proposta fece molto di più: li considerò amabili anche se sporchi, dignitosi anche se scartati, buoni e belli anche se malvestiti, bravi anche se senza scarpe. Li amò di amore paterno, di quell’amore autentico e gratuito che vuole bene senza secondi fini, che valorizza anche in circostanze sfavorevoli. Rendendoli “coro”, trasformò quegli uomini chiusi nella loro disperazione in una socialità armonica e favorì l’esperienza positiva di appartenere a un popolo.
Sr Francesca Caggiano
La vice postulatrice