Don Canelli senza scarpe
Don Felice era conosciuto da tutti come “il padre dei poveri” per l’amore concreto che nutriva per il prossimo in difficoltà. Sull’esempio di Gesù che si era svestito della sua dignità di Dio e si era fatto servo e povero per amore, don Felice si spogliava di tutto per aiutare i bisognosi perché in loro vedeva Gesù sofferente e dolorante e Lo serviva con tenerezza. Egli non era attaccato alle cose materiali: donava le sue scarpe, le calze, la zimarra per venire incontro e lenire le sofferenze degli altri. I poveri lo sapevano ed andavano da lui certi di trovare sempre una risposta ai loro bisogni materiali e spirituali. E quando non riusciva a dare un aiuto concreto, don Felice piangeva perché voleva aiutarli a tutti i costi e, non avendo le possibilità, andava a chiedere agli altri. Il suo smisurato amore per il prossimo era la logica conseguenza dell’amore per Dio che voleva trasmettere ai parrocchiani, ai collaboratori e ai conoscenti. Spesso affermava: «Le anime si accendono alle anime come fiaccole. […] Ardere per accendere con l’amore di Cristo». Svolgendo il suo ministero nei più diversi campi del sociale riusciva ad arrivare a tanti e con il suo esempio disinteressato, Canelli coinvolgeva tante persone di buona volontà nelle sue opere di bene. Tra gli anni Venti e Trenta, quando in diocesi non esisteva ancora la Caritas, don Felice fondò le prime associazioni assistenziali che, nello stile della Rerum novarum, servivano ad avvicinare i benestanti al popolo al fine di promuovere la dignità sia del donatore che del beneficiario. Le Opere sindacali e politiche poi erano il suo fiore all’occhiello. La promozione integrale dei poveri aveva bisogno certamente di pane ma anche di leggi civili a difesa della loro dignità e dei loro diritti fondamentali. Un giorno nel 1945 don Felice, camminando per una via di campagna della Parrocchia, trovò in un tugurio una donna poverissima, paralitica, abbandonata dai figli che giaceva su un pagliericcio sporco e maleodorante. La prese con sé e decise di chiedere ospitalità a tutti gli enti cittadini femminili ma, trovando le porte chiuse, si ripropose di darle riparo nella sua chiesa. La portò a Croce Santa, chiamò le donne di Azione Cattolica perché l’accudissero e le preparò un letto sul pianerottolo della cripta. Durante la messa della Domenica parlò ai parrocchiani di quel caso urgente e pietoso. Dinanzi a questi eventi si poneva sempre questa domanda: “San Vincenzo [de’ Paoli], tu cosa avresti fatto?”. Così invitava gli altri a domandarsi come farsi prossimo dei bisognosi. Trasformò quel caso particolare (come tanti) in una gara di generosità e in una palestra di educazione alla fraternità e non si diede pace fino a quando non trovò una degna sistemazione per quella donna in una casa di riposo fuori regione. Don Felice con il suo esempio nell’apostolato e con le sue parole esortava il popolo a vivere non a parole ma con i fatti la legge dell’amore evangelico. Per don Felice l’amore non era una questione di beneficenza ma di giustizia perché, al di là delle apparenze fisiche sfavorevoli, dietro quegli stracci c’era un essere umano prezioso, degno, da amare. Era solito dire che dando ai poveri riceveva molto di più. Il loro sorriso e, nella fede il ringraziamento anche di Gesù in loro, valeva più di tutte le ricchezze del mondo.
Sr Francesca Caggiano
La vice postulatrice