27 Settembre 2020
Omelia di S.E. Mons. Giovanni Checchinato in occasione dei festeggiamenti in onore di San Severo 2020
Ringraziamo il Signore per la possibilità che abbiamo di poter celebrare con una certa solennità la festa del nostro patrono, nonostante alcune limitazioni a cui responsabilmente ci atteniamo per il bene nostro e della comunità. E ringraziamoci gli uni gli altri per il segno della presenza a questo momento celebrativo, che esprime una grande verità di cui tutti siamo convinti, ma che l’esperienza passata e presente della pandemia da COVID-19 ci ha ricordato in maniera particolarmente forte: nessuno si salva da solo, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri! Abbiamo bisogno anche di testimoni autentici, che ci trasmettano con la vita la passione per i valori
irrinunciabili della vita umana, del nostro essere cittadini del mondo, oltre che cittadini del nostro comune di appartenenza, proprio come San Severo che con la sua vita di fede, ma anche di cittadino retto e responsabile, ancora oggi è nostro modello e maestro. Chi, come San Severo, sa essere fino in fondo fedele al valore della propria umanità, e conseguentemente a quella degli altri, crea e promuove cultura. Chi sottomette l’umanità ad altri valori, magari buoni, ma sicuramente meno importanti della promozione delle persone, di tutte le persone, di tutta la persona, senza rendersene conto scivola progressivamente verso la barbarie. E le persone sono state
create libere dal Signore, in una condizione tale per cui nessuno possa sentirsi ed autoaccreditarsi “centro” dell’universo, ma tutti siamo sempre bisognosi gli uni degli altri. Creati a immagine e somiglianza di Dio per essere comunità d’amore, come lo è Dio Trinità: comunità d’amore! Scriveva il poeta John Donne nel sedicesimo secolo: «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te». Quando viene meno la consapevolezza del nostro essere interconnessi, viene meno l’umanità ed avanza la barbarie rappresentata da un pensiero piccolo e meschino, dall’autosufficienza boriosa di chi pensa di avere solo diritti e non doveri, di chi conosce anche le regole, ma pretende che siano gli altri a
rispettarle perché per lui ci sono le deroghe. Un tempo che ha dimenticato il “limite” con tutte le sue variazioni di contenuto, manifesta un livello di consapevolezza pari a quello di un bambino che conosce solo il principio del piacere, e che piange quando dall’esterno qualcuno gli pone dei limiti: basta latte, basta dormire, basta giocare… E così questo popolo di bambini sempre insoddisfatti, da una parte si lamenta perché non vede riconosciuti i propri bisogni (ed ognuno di noi ne ha, e non necessariamente sintonici con quelli del vicino), o dall’altra parte si piega a qualche illuminato di turno a cui delega in toto la propria coscienza personale. Accettare il limite significa mettere ordine nella nostra vita di relazione, sapere dove comincia e dove termina la competenza di ognuno, mettere la giusta distanza nelle relazioni per poter attivare un dialogo da adulti, nel rispetto di ognuno. Papa Francesco, nel pieno del lockdown, in una piazza San Pietro deserta da far impressione, diceva: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.” (…) “La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità… Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.”
E uno studioso di scienze umane conferma, dalla sua postazione, le parole di papa Francesco: “Questo trauma non si può sconfiggere se non insieme. Il virus segna la morte definitiva dell’ideologia individualista. La libertà non è una proprietà individuale. Nessuno si salva da solo. La libertà nella sua cifra più alta è solidarietà. Questa è la lezione traumatica di questo virus”.
Il testo del profeta Isaia che abbiamo ascoltato come prima lettura ci ricorda che il Messia è venuto a “proclamare la libertà degli schiavi”, e che tutti coloro che seguono il Messia sono chiamati a compiere questa opera di “liberazione”, a immagine e somiglianza di tanti santi che hanno offerto proprio così il loro contributo alla salvezza dell’umanità. Di fronte a tanti egoismi che vengono sbandierati come conquiste di civiltà, “prima io e poi gli altri”, prima “noi e poi gli altri”, prima “quelli che stanno sul nostro carro” e poi gli altri, la pandemia ci ricorda che “la libertà” che crea uguaglianza, che promuove le persone “nella sua cifra più alta è solidarietà”. E se questo vale per tutti, vale in maniera tutta speciale per coloro che si riconoscono nella sequela di Cristo: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”. Il nostro territorio così bello e benedetto da Dio con tantissime risorse, patisce una tentazione forte rispetto all’individualismo e alla fatica dell’insieme. La
cultura contadina della nostra terra ha dato origine a una coscienza di popolo che ha reclamato giustamente il riconoscimento del lavoro come mezzo prezioso di costruzione condivisa del bene comune, ha conosciuto sindacalisti famosi e passati alla storia, generati da questa terra di Capitanata, così come di sacerdoti attenti ai poveri, come il nostro don Felice Canelli, pronto a camminare con chiunque rivendicasse con lui il pane, la terra e la sicurezza della famiglia; questa stessa terra sembra soffrire oggi di un calo di tensione rispetto alla cultura del bene comune, e
alla cultura in genere. Ce lo dicono non solo le statistiche che ci parlano di dispersione scolastica (nel 2017 quasi il 5% della popolazione della scuola secondaria di 2* grado) ma anche di un livellamento al minimo della consapevolezza dell’essere comunità, bisognosi gli uni degli altri, proiettati a costruire reti di solidarietà più che fortini di difesa, desiderosi più di cercare il molto che unisce il nostro destino che del poco che lo rende originale. Abbiamo bisogno di creare cultura, una cultura che sappia di bene comune, di libertà nella sua forma più sublime, la solidarietà, di promozione di tutte le risorse a nostra disposizione, prima fra tutte la “nostra madre terra”, e con essa ogni prodotto dell’ingegno umano, messo a servizio dell’intero pianeta. Abbiamo bisogno di testimoniare questa passione alle generazioni che verranno che non potranno crescere senza la nostra testimonianza e il nostro modellamento. Ancora papa Francesco nella Laudato sii (159/160) ci ricorda: “Le crisi economiche internazionali hanno mostrato con crudezza gli effetti nocivi che porta con sé il
disconoscimento di un destino comune, dal quale non possono essere esclusi coloro che verranno dopo di noi. Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni. Quando pensiamo alla situazione in cui si lascia il pianeta alle future generazioni, entriamo in un’altra logica, quella del dono gratuito che riceviamo e comunichiamo. Se la terra ci è donata, non possiamo più pensare soltanto a partire da un criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individuale. Non stiamo parlando di un atteggiamento opzionale, bensì di una questione essenziale di giustizia, dal momento che la terra che abbiamo ricevuto appartiene anche a coloro che verranno… «L’ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva». Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo?”
Chiediamo al nostro Patrono, riconosciuto “eccellente” dai potenti del suo tempo, di aiutarci a far crescere in mezzo a noi la cultura della solidarietà e della cura, della pace e della libertà, dell’impegno e del lavoro per la costruzione di un mondo ancora più bello, santamente orgogliosi di lasciarlo alle generazioni future migliore di come lo abbiamo trovato.