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15 Settembre 2022

OMELIA DI S.E. MONS. GIOVANNI CHECCHINATO IN OCCASIONE DELLA MESSA PER L’ORDINAZIONE DIACONALE DEL SEMINARISTA MATTEO AGOSTINO PENSATO

La celebrazione con cui viene ordinato un Diacono prevede tanti segni liturgici, ma due fra questi hanno un ruolo essenziale al sacramento dell’ordine: la imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione. Fra qualche momento, durante la preghiera di ordinazione verranno ricordate la storia e il senso di quanto stiamo compiendo: ascoltare con attenzione queste “formule fisse” ci aiuta a ricordare dimensioni che talvolta la prassi mette sullo sfondo o addirittura del tutto da parte. La preghiera di ordinazione, rivolta al Padre si esprime così: “Guarda con bontà questo tuo figlio che noi consacriamo come diacono perché serva al tuo altare nella santa Chiesa”. L’obiettivo di un diacono è dunque chiarissimo: servire all’altare… Se ci fermassimo a una lettura immediata e superficiale della espressione della preghiera di ordinazione dovremmo dire che il diacono è una specie di ministrante autorizzato, un chierichetto maggiore insomma. E per fare questo c’è bisogno di tirare fuori addirittura una ordinazione, scomodare popolo di Dio, vescovi e preti? Evidentemente c’è qualcosa che va riletta in maniera più approfondita e adeguata per evitare che il diaconato – sia quello transeunte che quello permanente – si trasformi in una specie di servizio liturgico blasonato, di alto lignaggio, o peggio ancora, in una specie di promozione alle persone che lo esercitano, perché possano avere il loro pezzetto di potere all’interno della chiesa. Mi pare che proprio il brano del Vangelo di Luca che abbiamo ascoltato nella Liturgia della Parola di oggi ci aiuti a fare chiarezza. Il brano appartiene ad un contesto ampio del Vangelo che viene aperto dalle beatitudini con cui Gesù proclama il Regno, promette la beatitudine ai poveri, agli affamati e ai piangenti. Ed è lui che per primo mette in opera quanto ha proclamato amando i nemici (nel contesto sono rappresentati dal centurione pagano a cui Gesù guarisce il servo), accoglie i peccatori (la peccatrice perdonata a casa di Simone il Fariseo, alla fine del capitolo) e prendendosi a cuore i piccoli, come nel brano ascoltato oggi, saziando la fame di vita di questo giovanetto e della sua mamma. Ecco qui c’è una specie di elenco di alcuni altari che il Signore Gesù ha scelto e sui quali serve con la sua prossimità e il suo servizio, con la sua parola e la sua autorevolezza, con tutto se stesso. Certamente Gesù conosceva bene la tradizione profetica della sapienza di Israele, tradizione a cui si richiama spesso; penso alle parole di Isaia (1,13-14) quando dice: “Smettetela di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità”. Proprio a queste parole Gesù si riferisce quando dice solennemente “Se aveste compreso che cosa significa ‘Misericordia io voglio e non sacrificio’”. E, qualora ce ne fosse bisogno, basterebbe ricordare le tre parabole che abbiamo ascoltato a messa domenica scorsa. Ecco, penso al diaconato come al servizio di tanti altari, quelli già annunciati e serviti da Gesù, e i tanti altari che la nostra storia apparecchia davanti ai nostri occhi perché possiamo esserne servitori, l’altare della solitudine, l’altare del giudizio, del disprezzo, l’altare delle vittime delle ingiustizie… Come scriveva D. Bonhoeffer: “Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro… dove gli uomini dicono perduto, lì egli dice salvato; dove gli uomini dicono no egli dice sì. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno d’amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono spregevole, lì Dio esclama beato”. Il servizio all’altare della liturgia diventa così la sintesi dei tanti altari serviti con il servizio diaconale, punto di arrivo e di ripartenza per imparare da Gesù che “avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine” diventando egli stesso altare, vittima e sacerdote. Questa dimensione, l’offerta di sé, è l’ultima a cui ci avviciniamo ma è la più importante: sull’altare non siamo chiamati a offrire cose o servizi ma ad offrire noi stessi, la nostra vita, il nostro tempo, il nostro corpo. Anche in questo abbiamo un esempio formidabile in Gesù, attento alle necessità degli altri, soprattutto dei più poveri, ma ugualmente attento a custodire il proprio cuore grazie ad una relazione costante con il Padre, garantita dalla preghiera, dal silenzio prolungato vissuto nelle notti di veglia, dall’adorazione del mistero racchiuso in ogni frammento della propria ed altrui esistenza. Talora, lo dobbiamo ammettere con un po’ di rossore sulle guance, il nostro servizio si riduce progressivamente ad un “dare” qualcosa a chi non possiede. E questa operazione piano piano, senza che ce ne rendiamo conto ci illude che siamo qualcosa di più rispetto a chi non ha… e dunque abbiamo il diritto dell’ultima parola, ci convinciamo di essere esperti a conoscere in anticipo cosa sia bene per gli altri, senza neanche chiederglielo. Assomigliamo a quel bravo scout che sente il dovere di fare la “buona azione quotidiana” prescritta e fa attraversare la strada alla povera vecchietta che a stento si regge sul bastone all’incrocio. Ma siccome non le ha chiesto nulla, non sa che la vecchietta ha appena attraversato la strada da sola! Quando si serve l’altare, il rischio che si corre è quello di posizionare l’obiettivo della camera da ripresa su di noi, e di dimenticare che l’obiettivo è l’altare. Quando si servono i poveri, altari preziosi agli occhi di Dio, si corre lo stesso rischio: pensare che l’obiettivo siamo noi e il nostro bisogno di servire. Una frase che viene attribuita a don Oreste Benzi, ma ascoltata tante volte e dichiarata con diverse paternità dice: “Non c’è nessuno così ricco che non abbia bisogno di ricevere, nessuno così povero che non abbia qualcosa da dare”. Ottima cosa il servire, ma ha bisogno costantemente di essere rettificato, supervisionato attentamente, perché anche dietro al servire può nascondersi l’amor proprio e ogni genere di peccato o perversione. Ecco perché chi si mette a servizio dell’altare in chiesa e degli altari della storia ha bisogno, più di altri, di sentirsi portato da Colui che lo ha chiamato a compiere questo servizio.

Caro Matteo, queste parole sono per te, ma non solo per te. Sono per tutti noi che, in forza del battesimo siamo chiamati a vivere nell’attenzione missionaria a chi ci sta accanto, a farci servi a somiglianza di Gesù che non è venuto nel mondo per farsi servire, ma per mettersi a nostro servizio. Certamente per chi si sta preparando ad assumere, a Dio piacendo, il servizio del ministero presbiterale, assumono una valenza speciale perché rappresentano l’invito ad onorare un sacramento che oggi ti viene donato dalla grazia di Dio. E vogliono anche essere un suggerimento a restare, nel tuo cuore, sempre diacono, qualunque sarà il tuo ruolo all’interno della chiesa e nel mondo. Servitore, dunque, come Gesù, all’interno del mistero della Chiesa, ove sono vari carismi e ministeri – come ci ha ricordato Paolo nella prima lettura – ma dove tutti siamo chiamati a desiderare intensamente i carismi più alti. E quale carisma più alto di quello di servire? È sempre Paolo che ci invita nella lettera ai Filippesi (2,5-8) a comportarci proprio così: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Che il Signore conceda alla sua santa Chiesa la consapevolezza di questo dono, e ci faccia tutti servi, gli uni degli altri. A lode e gloria di Dio Padre. Amen