01 Aprile 2025
OMELIA DI S.E. MONS. GIUSEPPE MENGOLI PER IL CONFERIMENTO DEI MINISTERI NEL PONTIFICIO SEMINARIO REGIONALE PUGLIESE “PIO XI” – MOLFETTA. 30 MARZO 2025

Le cose più importanti non si dicono con le labbra. Prima ancora, infatti, di aspettare il momento canonico all’interno della messa, con la sola nostra presenza così numerosa e gioiosa, stiamo già dicendo di “credere la Chiesa”. Crediamo la Chiesa e la amiamo perché ci genera e ci accoglie in una rete di relazioni fraterne e di vere amicizie. Crediamo la chiesa che oggi in voi giovani seminaristi, canditati al Lettorato e all’Accolitato, è capace di sognare il futuro e, nello stesso tempo, di dire sì nel presente. Siete figli di una comunità che crede in voi e che ora prega e sostiene la vostra volontà di accogliere con fiducia e generosità il dono e la responsabilità di un ministero. È bello vedervi come protagonisti della vostra vita dinanzi a Dio e dinanzi a noi che vi guardiamo con affetto e con il desiderio di passare “di fede in fede” grazie alla vostra testimonianza.
“Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate radunatevi” (Is 66,10).
Non è esagerata l’intonazione gioiosa di questa liturgia, che, proprio perché già nell’antifona d’ingresso ce l’affida Isaia, un profeta, ci lascia intuire che essa abbia dei tratti tanto reali, quanto esigenti.
Di per sé, la stessa quaresima fa già trapelare in più maniere la dimensione della gioia pasquale, i cui tratti di luce appaiono incontenibili: la proclamazione della trasfigurazione, due domeniche fa, l’incontro con Giuseppe che trasforma in forti decisioni i suoi grandi sogni, la solennità mariana dell’annunciazione e, poi, la domenica Laetare che celebriamo oggi, evocata dal colore rosaceo che vedete indossare da chi presiede questa eucaristia, le rinascite nella grazia che passano dalle confessioni, i gesti di perdono ricevuto o dato, le stesse celebrazioni eucaristiche, specie quelle domenicali, che, nutrono di luce e di calore il cammino di molti. Sono eventi pasquali, ancora, gli innumerevoli sacrifici che ogni giorno colorano di amore vero l’esistenza di tanti e, infine, la natura stessa che si risveglia dopo il sonno invernale. Quanta luce! Pascal affermava, tuttavia, che c’è sempre “tanta luce per chi vuol vedere e tanto buio per chi non vuol vedere” e, allora, davanti alle innumerevoli tracce di luce tocca a noi, solo a noi, aprire gli occhi del cuore e imparare a gioire dei tanti doni di Dio.
Oggi, perciò, stiamo vivendo una gioia moltiplicata, per la quale ci viene chiesto come requisito condiviso quello di amare il Signore e, nello stesso tempo, di amare la chiesa, senza ricorrere ai soliti distinguo, cui siamo abituati. Solo così, infatti, potremo sentirci dentro a una circolarità virtuosa, nella quale diventiamo reciproco e reciproco motivo di festa.
L’amore per il Signore e l’amore per i fratelli: ecco la porta d’ingresso attraverso la quale vogliamo passare per non rimanere fuori dal cono di luce di questa avvincente esperienza e per dare spessore al nostro essere figli dello stesso Padre e fratelli tra noi. Se indugiamo a lungo sulla soglia, l’incertezza di muoverci ci conduce invece sul piano inclinato di un’esistenza monca e intristita.
Anche le letture di oggi ci incoraggiano a non desistere dal muoverci.
Lo squarcio del testo di Giosuè ci racconta del popolo di Dio che, dopo aver attraversato prodigiosamente il Giordano all’asciutto, entra nella Terra promessa, nella quale celebra finalmente la pasqua. È vero! Il percorso è stato lungo e faticoso, ha conosciuto battute di arresto, è stato messo sotto scacco da ripetute proteste ed è stato sottoposto a non poche prove, ma la promessa di Jahwè si è realizzata. Per quel popolo è Pasqua, perché Dio lo ha liberato. È un’alba nuova in cui ogni relazione si rinnova, anche quella con la terra. Dal giorno successivo alla celebrazione pasquale, infatti, egli non avrebbe più ricevuto la manna dal cielo, ma avrebbe mangiato i frutti della terra: “azzimi e frumento abbrustolito”. Tutto con Dio ritrova un equilibrio, tutto entra in armonia, tutto riacquista un senso: i suoi doni sono affidati all’uomo, alla sua cura e alla sua responsabilità perché ne tragga profitto, perché viva e, perché, vivendo, scopra il suo amore ed entri in relazione con Lui. Il Signore, infatti, quando interviene non riduce mai l’uomo in uno stato di immobilità, precludendogli la possibilità di rimanere protagonista di sè. Anzi lo incoraggia ad amare la terra e non a scappare da essa.
La nostra terra promessa è Cristo, ci ricorda san Paolo nel brano della Seconda Lettera ai Corinti. È in Lui che abbiamo fatto ingresso, senza meriti, senza previsioni probabilistiche, in un amore sconfinato che viene unicamente da Dio! Nella Pentecoste, ci ricorda Romano Guardini, è scoccata “l’ora natalizia” del nostro essere in Cristo. Noi, allora, siamo già in Lui, perennemente in Lui, per un incredibile atto di predilezione e di misericordia che lo spinge a non imputarci le colpe che gravano su di noi, lo porta a infrangere le nostre chiusure e lo mette in corsa verso di noi per accorciare le distanze che, non di rado, la nostra libertà decide di porre.
Ci troviamo “alla scuola di un amore superiore”, come affermò Paolo VI nel 1978. E la superiorità di questo amore sta nel fatto che il peso dei nostri peccati forse ferma noi, ma non il Signore che non ha paura di raggiungerci proprio lì dove ci troviamo e così come siamo. Per questo l’unico vero ostacolo al suo amore può essere solo il nostro rifiuto a lasciarci raggiungere. Ma nel momento in cui ci arrendiamo a Lui senza darci alla fuga, Egli cambia sorprendentemente l’esistenza e ci conferisce la stessa forza che svegliò il cuore degli apostoli nel mattino di Pentecoste.
A questo punto saltano i vecchi e usurati equilibri relazionali, si smontano i presupposti del politicamente corretto, che fa riposare solo nella sicurezza dei nostri spazi recintati. Il modo di relazionarsi con gli altri cambia, perché chi è veramente raggiunto dal fuoco, sente addirittura il bisogno di supplicare, affinché nessuno perda l’occasione di lasciarsi incontrare dal Signore o si volti indietro. Chi ha scoperto di essere amato così, non può tacere ciò che vive e non si rassegna al fatto che altri rimangano imprigionati nel buio del non-senso o si smarriscono nelle proprie trame esistenziali, molto spesso simili a labirinti senza uscita.
Se poi è il padre stesso della parabola evangelica a supplicare il fratello maggiore perché entri anche lui nella festa, si comprende quanto sia importante e urgente che anche la Chiesa continui a farlo senza stancarsi. Per essere efficaci annunciatori del vangelo, non ci rimane che dismettere la scoraggiata e delusa postura di chi osserva impotente l’allungarsi delle distanze delle persone dalle nostre liturgie e dai nostri contesti ecclesiali, per rileggerci, invece, come l’umile segno di una presenza viva che, se a volte gioca a nascondino, è perché vuole che la si cerchi più tenacemente.
Non servono per questo nuove e più appropriate strategie persuasive, ma solo il coraggio di misurare l’autenticità delle nostre scelte. Non si impongono innanzitutto ragionate e coerenti dialettiche, quanto piuttosto coerenza di vita e, prima ancora, fedeltà, rese preziose dal prezzo che paghiamo per esse.
Anche la parabola di Luca ci racconta di un ingresso, quale tappa ultima di un ritorno, il cui tragitto prende le mosse dalla non facile ammissione di trovarsi lontani da sé, da Dio e dagli altri.
Sono tanti i criteri per verificare se abbiamo iniziato questo viaggio: la consapevolezza del nostro peccato, il risveglio del bisogno di un Dio che percepiamo via via non più come ostile, ma come padre, la concretezza dei passi su un itinerario reale e non solo pensato.
L’evangelista, tuttavia, ci racconta anche la drammatica possibilità di un non-ritorno, legata all’incapacità, a volte, assuefatta di andare incontro all’altro, amandolo a prescindere, proprio come fa il Padre. Non dovremmo concentrarci, infatti, solo sul figlio minore! Anche il fratello maggiore ha da fare un lungo percorso che ancora non vede o che, pur vedendolo, non vuole fare. E di questo percorso il passo decisivo e certamente quello più difficile sarà quello di considerarsi “minore” anche lui, secondo quanto ci insegna il vangelo in riferimento a chi vuol essere il “primo”. La scelta più profetica che la parabola ci pone davanti è quella di aprire gli occhi del cuore sul rischio mortale di usare la presunzione di sentirsi “maggiore”, “presbýteros”, così come è scritto nel testo greco, come un’orgogliosa e vincente prerogativa o come l’ineccepibile requisito di chi si sente arrivato. Si tratta di dare spazio, invece, alla scelta certamente scomoda e non capita dell’essere “minore”, del diventare “minus”, di “minus-stare”, radice della parola “ministero”, ma che è l’unica via calpestata da Gesù, fino all’ultima ora della sua esistenza terrena.
Un discepolo non procede mai per avanzamenti meritori, sceglie sempre, invece, la bussola degli abbassamenti amorevoli, di quelli che svuotano da sé, che non si chiudono in sicuri arroccamenti e si trasformano in quotidiani atti di consegna a Dio e agli altri. Simili eccedenze, a tutta prima, possono apparire delle perdite, ma, come ci insegna Maria, sono la felice espressione del più grande guadagno che immeritatamente abbiamo già ricevuto.
Questa è la via del ritorno! L’ingresso nella libertà dei figli di Dio avviene attraverso la “porta stretta” della croce, che rimane anche per noi l’unica unità di misura evangelica dell’ampiezza e della profondità delle nostre scelte. Fermarsi a metà strada per paura o per orgoglio ci precluderà di vivere nell’abbraccio del Padre e ci impedirà di ritornare ad abbracciare il fratello.
L’ingresso in Cristo e nella Chiesa, il ritorno a casa, poi, hanno sempre il sapore del perdono e della festa, che tutti, davvero tutti, possiamo assaporare quando sappiamo gioire dei germogli primaverili di vita nuova, presenti in noi e nelle nostre comunità, quando sappiamo custodire e far tesoro delle belle pagine di riconciliazione, scritte nel libro della nostra vita, quando accogliamo di buon grado le piccole e concrete sfide quotidiane e quando ci sentiamo accolti da Dio e, non di meno, dai fratelli. Solo quando sentiremo il gusto di queste primizie pasquali, allora, potremo dire essere di casa nel cuore di Dio. E questo ci basterà, perché sarà il preludio più vero dell’ingresso definitivo nel cielo.
Carissimi seminaristi che tra pochi istanti sarete istituiti lettori e accoliti, un’ultima parola sull’etimologia del termine “minus”. In latino è il comparativo di “parvus” (piccolo). E questo è il senso che vogliamo raccogliere: ognuno di noi è “parvus” (piccolo) su questa terra e a ricordarcelo è la vita stessa, nonostante le pertiche sulle quali spesso ci affanniamo a salire. Chi vive un ministero in nome di Cristo, chi vuole essere suo ambasciatore, chi supplica in suo nome, proprio come ha fatto Lui, deve imparare a essere “ancora più piccolo” per vivere la gioia del dono di sé e per ritrovarsi ricco, così, di tutti coloro che riesce ad amare. “Ancora più piccoli”, quindi. In ogni situazione. Questo è il segreto che oggi la liturgia ci consegna ed è l’augurio che vi facciamo con il cuore.
+ don Giuseppe
OMELIA DI S.E. MONS. GIUSEPPE MENGOLI PER IL CONFERIMENTO DEI MINISTERI NEL PONTIFICIO SEMINARIO REGIONALE PUGLIESE “PIO XI” - MOLFETTA. 30 MARZO 2025