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28 Marzo 2024

OMELIA DI S.E. MONS. GIUSEPPE MENGOLI PER LA MESSA CRISMALE 2024

Diocesi di San Severo

Omelia per la Messa Crismale

28 marzo 2024

È proprio vero! La fede quando è condivisa si moltiplica, come in questa solenne concelebrazione che vede insieme al Vescovo il suo presbiterio e il suo popolo, protagonisti nel celebrare la fede, felici di sapere che ognuno, oggi, sta dicendo un ‘sì’ che arricchisce reciprocamente e crea unità. Crea Chiesa.

È bello, infatti, scorgere il circolo virtuoso che si crea durante una messa, nella quale la scoperta del grande mistero dell’amore di Dio che ciascuno fa, si intreccia con quella degli altri. Il valore aggiunto, poi, della Messa Crismale fa sì che sia l’intera Chiesa diocesana a ritrovarsi come un’unica famiglia attorno all’unico altare, attorno all’unico Signore, grazie al quale, in questa nostra Cattedrale, anche noi possiamo vivere senza retorica un clima nuovo e sentirci a casa.

Qui la regola dell’‘ognuno pensa per sé’ o dell’‘ognuno crede per sé’ non funziona, perché tra fede personale e fede comunitaria non c’è una sequenza temporale di un ‘prima’ e di un ‘poi’, ma un tenersi reciproco, tanto che se cade l’una, cede anche l’altra.

E proprio perché la messa di oggi ha una valenza, anche visibilmente, diocesana – e lo dice in modo speciale la vostra presenza, cari presbiteri – non possiamo trascurare l’unione mistica e reale con tutto il popolo di Dio che, anche se fisicamente assente, sappiamo essere una sola cosa con noi, appartenendo ad un unico corpo e non sfuggendo mai allo sguardo amorevole del Padre. Non siamo mai legittimati, infatti, a pensarci in termini di esclusività, né regge qui il comodo parametro della rappresentatività. La natura del legame che lega i credenti è molto più profonda, lo sappiamo, e include tutti come protagonisti, anche quando non rientrano nell’orizzonte sempre limitato del nostro campo visivo. Siamo qui per elezione divina e non ci sfugge la consapevolezza che siamo stati eletti proprio tutti con il dono del battesimo e, per estensione salvifica, con il dono della vita stessa. Come conseguente prova del nove dell’autenticità della presente liturgia è importante, allora, saper giungere alla conclusione che ci interessano tutti e giungere, non di meno, alla ferma volontà di far scaturire da questo appuntamento diocesano, come da una cascata, una rinnovata volontà di presenza nel nostro mondo, lì dove il Signore ci chiama a svolgere la nostra missione.

In questo quadro comunitario, tuttavia, vi invito a compiere, innanzitutto, una virata verso la dimensione personale. Anzi, più propriamente l’invito ce lo rivolge a chiare lettere, nella prima lettura biblica che abbiamo ascoltato, l’anonimo profeta dei rimpatriati di Israele: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione” (Is 61,1). Egli parla in prima persona, così come lo farà il Signore nella Sinagoga di Nazaret. Confessa con fermezza e umiltà l’inaspettata missione affidatagli da Jahwè. Questo profeta ci fa entrare nel vivo della sua chiamata, della sua storia di fede e afferma di essere depositario di un incredibile dono, di un’aspettata presenza: lo spirito, lo spirito del Signore Dio! Nel suo spirito, infatti, così simile al fuggevole respiro, di cui a volte nemmeno ci si accorge, ma che ha in sé il segreto e la forza della vita, si fa presente la potenza di Dio che, lungi dal permettere al profeta di vantare qualità superiori, lo abilita a combattere contro quell’impotenza creaturale che è eredità di tutti e gli dà la forza di porre un argine a quell’indurimento del cuore che caratterizzava il popolo scelto di ieri, non meno di quanto non cónnoti anche i credenti di oggi. Quello spirito divino, poi, lo sostiene, lo investe, lo penetra nella parte più vera di se, lo pone come un vegliardo capace di mantenere gli occhi aperti sul “nuovo” sociale che poteva venire solo da Dio, più che dalle diplomazie umane. “Portare il lieto annuncio ai poveri”, “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, “proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione ai prigionieri, “consolare gli afflitti, una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, una veste di lode invece di uno spirito mesto”: ecco come si declinava la novità di cui il profeta si faceva docile strumento. Quella novità, poi, sarà pienamente e definitivamente realizzata in Cristo, perché la consegna che dello Spirito farà dalla croce permetterà ad ogni suo discepolo di essere avvolto dall’amore misericordioso del Padre e di vivere la nuova condizione di figlio, che non potrà più essere disattesa.

Lo Spirito che si riceve in dono, infatti, non può essere vantato come un comodo e sicuro requisito personale, perché, che ci piaccia o no, sono proprio le opere che confermano o smentiscono il nostro essere in Cristo e solo su di esse saremo giudicati da Dio e dagli uomini. Così pure i sacramenti, che sono “azioni dello Spirito nel corpo di Cristo che è la Chiesa” (CCC 1116), non ci rendono immediatamente uomini spirituali, né tutelano anche chi vi si accosta abitualmente, se manca la testimonianza della vita. Spirito, liturgia e vita, infatti, costituiscono un trittico sempre inseparabile e sono l’asse portante attorno cui orbita tutto il mistero cristiano.

Ma qual è stato il momento esatto in cui per il profeta è cambiato tutto? Non ci sono dubbi! Il momento dell’unzione. Non sembri esagerato che il Signore affidi la sua azione salvifica ad un semplice e fugace gesto che, per forza di cose, è compiuto da una mano umana.

Si rimane assolutamente meravigliati della valenza ineffabile che può contenere un gesto liturgico. Sconcerta scorgere che il Signore si serva delle povere mani di un suo servo, di un uomo esattamente come gli altri, per toccare quanti lo cercano con cuore sincero. E, lo sappiamo! Davanti a questo eccesso di luce, racchiuso in un rito, è più facile immergersi che presumere di capirlo; giova molto di più accoglierlo, per quanto si è capaci, piuttosto che affidarsi ai balbettii delle spiegazioni. Tuttavia, per chi ha incontrato il Signore Gesù e gli ha aderito con fede, non sorprende che l’apice del suo mistero stia proprio nell’unire il cielo e la terra e che, perciò, il Padre che è nei cieli continui a camminare e a operare sulla terra, affidandosi all’umile collaborazione dei suoi discepoli, al disinteressato servizio della Chiesa.

Mi sembra facile e utile richiamare alla memoria, come sfondo al percorso che vi sto proponendo, ciò che affermava nelle prime battute la Sacrosanctum Concilium: La Chiesa – diceva il Concilio – ha “…la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura” (SC 2).

Sotto i nostri occhi, tra pochi istanti, accadrà qualcosa di indescrivibile, quando, in un clima orante, l’abbondante defluire di quell’olio, che verrà presentato al vescovo, diventerà segno efficace dell’infinita misericordia divina versata sul cuore e sulla vita di ogni uomo.

Certo! Agli occhi di una mentalità secolarizzata che svuota i momenti di fede, riducendoli a mera tradizione religiosa, tutto ciò può apparire addirittura impossibile, ma qui inizia la nostra più grande sfida: quella cioè di accogliere senza resistenze il mistero di Dio, che, a sua volta, raggiunge il mistero dell’uomo per illuminarlo, per guarirlo, per salvarlo.

Quanto è ricca la tradizione della Chiesa che nelle catechesi mistagogiche dei padri dei primi secoli ha raccolto la contemplazione dei divini misteri, cuore pulsante della vita dei fedeli.

L’unzione è il bacio della grazia, il momento in cui Dio accoglie definitivamente chi è toccato dall’olio, è l’ingresso trasformante, già su questa terra, nella gloria divina. L’unzione dice che attraverso le mani di chi unge, il Signore scardina il vecchio mondo per ricrearne uno nuovo. Il momento in cui l’olio penetra nella pelle è il pallido e pur visibile segno di quanto Dio stesso copra “con la sua ombra”, come direbbe la Scrittura, ogni sua creatura. Ecco perché non ci si può abituare ai sacramenti, come se fossero fatti normali; la loro straordinarietà richiede sempre una sincera motivazione di fede e un grande desiderio di Dio, pena la reale, ma scongiurabile possibilità di farsi intrappolare dalla stanca ripetitività di riti, incapaci ormai di risvegliare sussulti di novità, unanime volontà di ripartenza.

È decisivo, allora, predisporsi ad un umile ingresso in eventi che, nonostante i nostri sforzi, surclassano sempre le nostre limitate capacità. Non siamo noi, infatti, a comprendere loro, ma sono loro a comprendere (nel senso letterario del termine di cum-prendere: prendere con) noi e ad avvolgerci. Se solo lo vogliamo.

Ma esiste un paradigma unico dell’unto, che nello stesso tempo tuteli l’unicità di ognuno?

Mi piace riprendere l’episodio in cui Samuele è inviato da Jahwè nella casa di Iesse il Betlemmita per ungere il re che Egli stesso aveva scelto. Chi viene scelto? Chi viene unto? “Il più piccolo”! … e, aspetto non meno trascurabile, quello che era “a pascolare il gregge”.

Sono queste, cari presbiteri, le due prerogative che vorrei affidarvi. Ecco i due riferimenti che non dovrebbero mai mancare dalla nostra vita. La consapevolezza della nostra “piccolezza” innanzitutto. Per l’attuazione dei suoi progetti Dio convoca soprattutto gli ultimi, i secondi, i più piccoli, sconfiggendo la logica del successo. Esserne consapevoli ci permette di non agitare lo spettro della sconfitta e della delusione, quando alcuni appuntamenti della vita ci ricordano la nostra fragilità o quando l’ordinarietà del nostro ministero ci presenta lo scarno bilancio di una certa insignificanza sociale. Non dimentichiamolo mai: siamo i più piccoli e agli occhi di Dio dovremmo poter sempre rimanere tali.

La piccolezza, poi, quando è riconosciuta e accolta, diventa una preziosa risorsa perché permette di aprirci a chi ci sta accanto, ci fa sentire forti e gioire proprio del fatto di poterci appoggiare sugli altri e, nello stesso tempo, far sì che anche gli altri trovino in noi un sostegno. Sta qui la bellezza di essere un solo presbiterio.  Deriva da qui la preziosa e inderogabile responsabilità di custodirci l’un l’altro. Con sincerità. Con affetto fraterno. Con misericordia.

Solo custodendoci, impareremo a custodire anche la missione che il Signore ci ha affidato. Impariamo a prenderci cura reciprocamente per essere pronti, poi, a nostra volta, a prenderci cura delle persone a noi affidate. Si ha bisogno della misericordia umana, di quella del fratello che mi è accanto, infatti, non meno di quanto si necessiti di quella divina. Ogni ferita cicatrizzata con il balsamo della grazia e con lo sguardo buono di chi ho accanto a me, dà forza e vigore all’intero corpo. E anche la cosiddetta fondazione teologico-sacramentale del presbiterio non sia nient’altro che la sicura affermazione che il Signore ci ha pensati insieme, perché ci ama insieme e perché proprio a noi, nessuno escluso, ha consegnato l’eletta porzione di questo popolo.

Insieme, cari presbiteri, con la nostra piccolezza accettata, condivisa e offerta a Dio senza timore, siamo un segno vivente dell’amore di Dio ed efficace rimando alla sua grandezza. E a Lui vogliamo rendere gioiosamente lode, proprio come ha fatto la Vergine Maria, la piccola creatura di Nazaret.

Il secondo riferimento, legato al parametro dell’unto, è che Davide, benché piccolo “stava a pascolare il gregge”. È tutta scritta qui la nostra missione, quella che abbiamo accolto con gioia e quella per la quale ci spendiamo ogni giorno. Non possiamo pensarci senza il gregge. La nostra vita è per il gregge. Se non fosse così, cadremmo in una triste aridità. Se si spezzasse il legame con il gregge, cadremmo nel buio del non senso vocazionale ed esistenziale. Ed, invece, è proprio dal gregge che si parte per poter tener vivi l’ardore missionario e lo zelo apostolico. Ricollochiamoci instancabilmente, perciò, al centro di due assi cartesiani: da una parte l’ardente desiderio che Dio ha di raggiungere l’umanità, ogni uomo; dall’altra lo struggente desiderio di Dio che spesso non si riesce a decodificare, ma che è al fondo di ogni cuore. Se usciamo da queste due coordinate, rischiamo di essere fuori asse e di non comunicare più niente, nonostante gli sforzi.

Quante implicanze dal pascolare il gregge per amore: innanzitutto quella di stare in mezzo al gregge, senza concedersi pause, fino a farlo diventare l’unica ragione di vita, poi quella di nutrirlo con cibo sicuro e, infine, quella di proteggerlo dagli attacchi e dalla dispersione. Solo chi è tutt’uno con il gregge, poi, saprà chiamare per nome, una per una, le pecore e constaterà, sorpreso, che esse riconoscendo la sua voce, lo seguiranno con fiducia.

Auguri, cari presbiteri, e grazie perché ci siete e perché oggi rinnoverete davanti a Dio e alla comunità le vostre promesse. Vorrei pronunciare i vostri nomi uno per uno, così come li ha pronunciati il Signore nel momento della vostra chiamata e vorrei farlo per evitare che la mia gratitudine verso di voi appaia generica e, quindi, meno efficace. A tutti voi vanno il mio sostegno e il mio incoraggiamento.

Un pensiero grato vada da tutti noi ai Reverendissimi Presuli che mi hanno preceduto in questa sede: a S.E. Mons. Michele Seccia, a S.E. Mons. Lucio Angelo Renna che celebrerà quest’anno il 25° anniversario della sua ordinazione episcopale e a S.E. Mons. Gianni Checchinato. Mi hanno consegnato una Chiesa radicata nel presente e, nello stesso, in cammino sulle vie impegnative ed avvincenti del vangelo. Siamo certi di essere nelle loro preghiere e siamo felici di ricordarli anche noi in questa celebrazione.

Un pensiero affettuoso e una preghiera vanno ai nostri cari fratelli presbiteri, impossibilitati a essere fisicamente presenti con noi, ma che sentiamo particolarmente vicini. Sappiamo che il Signore accoglie come offerta preziosa la loro momentanea sofferenza.

Voglio rivolgere gli auguri dell’intera comunità a don Leonardo Di Ianni e a don Angelo Valente nel 25° anniversario della loro ordinazione presbiterale e pregare per loro, perché continuino a servire il Signore e la Chiesa con lo stesso entusiasmo della prima ora.

Un fraterno e cordiale pensiero va a don Nazareno Galullo che sta realizzando per noi e con tutti noi il bel legame di cooperazione missionaria tra la nostra diocesi e quella di Natitingou. Il Signore benedica il suo ministero e continui a dare alla nostra chiesa locale lo stesso slancio missionario che caratterizzò i primi discepoli.

Prega con noi dal cielo don Umberto Prattichizzo che ormai canta la liturgia celeste. Anche noi vogliamo ricordarlo con una preghiera di sincero e fraterno suffragio.

Lodo il Signore, cari confratelli presbiteri e diaconi, per avervi come primi collaboratori con il vostro prezioso ed insostituibile ministero nella Chiesa locale di San Severo.

I Venerabili Servi di Dio, Don Felice Canelli e Don Francesco Maria Vassallo, siano di sprone ad individuare sempre e solo le vie della santità nell’esercizio del vostro ministero, il quale o è santo e santificatore o non è affatto. Essi hanno amato lo stesso Signore, hanno servito la stessa diocesi e, ora, con il loro luminoso esempio vi incoraggiano a vivere in pienezza la vostra missione.

E anche voi, popolo di Dio, unitevi con me nel ringraziare il Signore per il dono di questi nostri fratelli presbiteri. Essi sono i fratelli, le guide, i padri, i servi che Dio ha scelto per voi.

Cari seminaristi, che vi siete incamminati nella sequela di Cristo Buon Pastore, il fascino del suo sguardo vi seduca, la bellezza della vostra chiamata vi allieti, l’amore per la Chiesa allarghi il vostro cuore e vi incoraggi a donarvi con tutto voi stessi.

La Vergine Santa, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, ci insegni a essere lievito nella massa e a scoprire che solo perdendoci per amore, troveremo la vera vita ed entreremo nel mistero pasquale. Amen

+ don Giuseppe