31 Maggio 2023
OMELIA INGRESSO MONS. GIUSEPPE MENGOLI
Grazie, carissimi, per questa vostra gioiosa e sincera accoglienza! Mi sento già tanto sorretto dal vostro affetto! Che bello incrociare i vostri sorrisi, accogliere il vostro augurio, ricevere il vostro saluto e benvenuto!
Arrivo con la trepidazione di tre lunghi mesi di attesa, nei quali il Signore mi ha chiesto di orientare la mia esistenza verso di voi e mi ha consacrato con l’unzione del sacro crisma perché potessi iniziare a vivere in questa terra, il mandato dato ai successori degli apostoli.
Ho sentito in modo forte e chiaro la vostra attesa, l’attesa di chi è chiamato da Dio a essere segno visibile di Cristo buon pastore. Sono stati tre mesi di attesa, ma non di distanza, la quale è stata annullata da una simpatia che mi avete manifestato già dalla prima ora e, soprattutto, dalla sincera preghiera che avete elevato per me ogni giorno.
A ben vedere, poi, siamo tutti costantemente costituiti dall’attesa. Chi crede in Dio si pone in uno stato di attesa fiduciosa, perché sa che il Signore non tradisce mai le sue promesse. Per questo ogni giorno, nel cuore della messa, al termine del momento della consacrazione, confessiamo la fede “nell’attesa della sua venuta”.
Ci sorprende non poco la certezza, infine, che, più e prima di tutti noi, sia proprio il Signore ad attenderci da sempre. Attende e, nello stesso tempo, diventando la nostra perenne sorpresa, ci corre incontro con l’unico desiderio di raggiungerci, di amarci, di salvarci.
L’attesa allora, che tocca tutti, è la forma più alta dell’amore, poiché è la maniera in cui si pone chi è povero e chi ha fiducia. Nessuno di noi, infatti, è così ricco da non dover attendere niente e nessuno. Sì, l’attesa fiduciosa del povero è la chiave che ogni giorno può aprire il cuore a Dio e, non di meno, al prossimo.
E ora, carissimi, si profila ampiamente davanti ai miei occhi la missione del pastore e so che al mio cuore è chiesto di “pascere il gregge”, quale “impegno di amore” (“officium amoris”), come affermava S. Agostino nell’Omelia 123 del suo Commento al vangelo di Giovanni. Ma l’amore non lo si impara teoricamente. Si impara ad amare sul campo, con la quotidiana predisposizione ad amare e a lasciarsi amare.
S. Ignazio d’Antiochia, all’inizio del II secolo, nella sua Lettera agli abitanti di Smirne (8,1), scriveva che il ministero di vescovo deve essere il “pensiero”, “l’idea”, o più propriamente il “portavoce” (“gnome” in greco) di Cristo, esattamente come Cristo è il “pensiero” del Padre (Ef 3,2). Questa prospettiva esclude qualsiasi atteggiamento arrogante da parte mia, la presunzione di poter essere o fare qualcosa da me stesso e mi sprona invece a pormi in ascolto del Signore per far sì che le mie parole siano solo un’eco delle sue e in ascolto anche di ciascuno di voi, quale prima e inderogabile forma di accoglienza. Sono consapevole infatti che per essere “pastore secondo il cuore di Dio” e per poter essere segno della sua presenza si incomincia sempre da qui. La nostra prima e più grande possibilità, infatti, è porci in ascolto perché siamo ricchi del fatto che qualcuno ci distingua e ci rivolga la parola, ci ami e ci chieda di entrare in relazione con noi. Quante infinite possibilità racchiude un vero e umile ascolto dell’altro.
Vorrei pregassimo gli uni per gli altri per diventare veramente capaci di un autentico e profondo ascolto. Da parte mia vi ascolterò uno per uno per accogliervi e per custodirvi dentro di me. E, già in anticipo, vi ringrazio per la fiducia che mi accorderete.
Rivolgo un cordiale e fraterno saluto a voi, Reverendissimi Confratelli Vescovi, che siete qui per condividere questo momento di preghiera con la comunità diocesana e per esprimermi nel giorno in cui inizia il mio ministero pastorale la comunione dell’intero collegio dei vescovi.
Il mio pensiero va a Mons. Gianni Checchinato. Appena ricevuta la nomina da parte del Papa, ho sentito il bisogno di andare a incontrarlo. Mi sono sentito accolto da lui ed è stato bello ascoltare il suo racconto vivace e appassionato: mi ha raccontato di voi, della vostra fede, delle vostre fatiche, dei vostri sogni. Sono felice di pormi in continuità con lui e con grande rispetto e stima verso ciò che ha fatto, sapendo che quanto il Signore ha operato attraverso di lui è per me e per noi una grande eredità, un sicuro punto da cui ripartire. Sì! Guarderemo sempre a lui e ai suoi predecessori con gratitudine e con la gioia di continuare a camminare.
Prima della celebrazione, ho già ricevuto il saluto di benvenuto delle autorità civili e militari, cui rivolgo ancora il mio deferente pensiero di gratitudine per il dono della loro presenza anche in questo momento di fede.
Grazie, carissimo don Luigi, per aver amministrato in questi mesi la diocesi di San Severo. La tua discrezione e la tua attenzione verso l’intera comunità diocesana le hanno permesso di non fermarsi e di non rimanere disorientata. Hai fatto in modo che l’operosità e la vivacità di questa comunità ecclesiale, che imparerò ad apprezzare, non si affievolissero. Ritengo molto prezioso il delicato ministero che hai svolto in questi mesi e tutti – ne sono certo – te ne siamo davvero grati.
Un sincero ringraziamento va, non di meno, ai consultori della Diocesi e all’economo diocesano per aver voluto da subito abbattere le distanze con me, creando un clima di verità e di franchezza ed esprimendomi quella disponibilità che ho già riscontrato, poi, in tutti voi confratelli sacerdoti e diaconi. Grazie a voi, Sacerdoti! Vedo tra voi e me i germogli di una relazione che è già nata e che ora attende solo di crescere, di maturare, di diventare forte perché comunichi la bellezza della nostra missione pastorale verso tutto il popolo di Dio. Le comunità hanno bisogno di voi! Il Vescovo ha bisogno di voi! Grazie per la generosità della vostra risposta! Condivideremo la gioia della nostra vocazione, la responsabilità di accompagnare il popolo che ci è affidato, l’instancabile volontà di santificare, di evangelizzare, di amare tutti senza eccezione. Condivideremo anche le fatiche e le sofferenze, sapendo che se uno di noi soffre, soffriamo tutti, proprio come in famiglia.
Anche ai religiosi e alle religiose presenti in questa Diocesi vanno il mio pensiero e il mio ringraziamento. La freschezza del vostro carisma e della vostra quotidiana e radicale dedizione al Signore ci aiuta a fugare ogni forma di mediocrità e di “mondanità spirituale”, come la stigmatizza solitamente papa Francesco.
Rivolgo uno speciale saluto ai nostri cari seminaristi! Mi commuove pensare che essi stiano maturando il sogno di spendersi proprio per questa nostra Chiesa. Questo basta per volervi bene e per tener vivo e alto l’impegno di tutta la nostra comunità ad accompagnarvi nel vostro percorso di discernimento vocazionale, con la vicinanza e con la preghiera.
Voi, carissimi fedeli laici, siete, anche questa sera, la prova tangibile che il Signore ama il suo popolo. Non sentitevi mai un’aggiunta, gli ultimi della scala gerarchica. Voi siete al centro della premura divina e siete il cuore della famiglia ecclesiale. E noi, vescovo, presbiteri e diaconi siamo qui per voi. Vogliamo essere per voi operai instancabili perché vogliamo il vostro bene, non escluso quello eterno.
Vorrei giungesse fino a noi l’esortazione del profeta Sofonia, che era rivolta a tutto il popolo di Israele e, nello stesso tempo, alla coscienza di ciascun Israelita. Il suo annuncio, infatti, non era innanzitutto sociale. Chiedeva conversione, voleva toccare e raggiungere il cuore di ognuno.
È vero! Il Signore attraverso la bocca dei profeti usa sempre e solo questa strada. Prima smuove le coscienze e poi, di riflesso, arriva agli altri e chiede di rinnovare le relazioni umane, iniziando da quelle più vicine. Mi piace accogliere l’indicazione che troviamo negli scritti di San Serafino di Sarov. Egli scrive: “Trova la pace nel cuore e mille, attorno a te, si salvano”. Quando manca la pace attorno a noi, invece di additare gli altri, dovremmo porci qualche seria domanda sul nostro modo di porci: se siamo riconciliati con noi stessi o piuttosto divisi nel cuore e rancorosi.
Il profeta invita con forza alla gioia perché annuncia la revoca di una condanna, annuncia una liberazione, assicura un rinnovamento che parte da Dio e trova fondamento esclusivamente nella sua misericordia. Il riferimento per noi è chiaro ed immediato: si tratta della fine della condanna della schiavitù, la rottura del pesante giogo delle fragilità, il superamento delle contraddizioni, la cancellazione dei peccati, la morte di una vita brutta che fa male a noi stessi e agli altri e che contraddice il meraviglioso originario progetto. Sì! La nostra fede nella potenza di Dio ci ricorda che “l’uomo non è solo sanabile, è già sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene: Cristo crocifisso e risorto” (Benedetto XVI, Credo la vita eterna, p. 17). È questo il cuore della nostra fede, quello che ci permette di vivere in modo nuovo.
Ma qual è lo stile da avere per dire che siamo stati guariti? Come vivere?
È Maria a dirci come fare. E poiché Lei è il modello del credente, nella festa della Visitazione che oggi stiamo celebrando, vogliamo metterci proprio alla sua scuola. Vi sono grato per aver scelto per il mio ingresso in diocesi, proprio il giorno in cui Lei fa il suo ingresso nella casa di Zaccaria ed Elisabetta. Così, senza grande fatica, possiamo illuminare questo nostro bel momento di fede ecclesiale con quell’incontro raccontato da Luca.
La pregnanza dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, infatti, ci svela le grandi potenzialità contenute nei nostri incontri, dei quali, però, per motivi certamente non ispirati, spesso ne attutiamo la luce, ne deformiamo la natura, preferendo parlare di incontri formali, di incontri ufficiali, di incontri indesiderati, incontri casuali, previsti o imprevisti… Quante sfumature per definire o forse per presumere di gestire l’unica grande verità del bisogno di relazione che c’è tra le persone. Eppure nella Visitazione abbiamo il modello di ogni visita, di ogni incontro.
I due termini “incontro” e “visitazione”, innanzitutto, non sono sinonimi, perché dietro a ogni visita c’è sempre la marcata intenzionalità di cercare, raggiungere, trovare e stare con l’altro. È vero, in riferimento a Gesù si parla di incontri e di incontri è intessuto il vangelo, ma a monte – lo sappiamo – l’incarnazione è “Dio che ci ha visitati dall’alto”. Egli ha voluto e vuole davvero raggiungerci fino a rimanere con noi per sempre.
Quelli di Gesù, quelli della Vergine Maria, allora, sono incontri decisivi, tenacemente voluti e offerti come una straordinaria possibilità da non sciupare. E su questo esempio, anche per noi ogni incontro dovrebbe essere decisivo, sacro. La fretta di oggi, la disattenzione, il ripiegamento su se stessi e il pregiudizio, invece, ci impediscono di coglierne la portata e l’incontro, invece che occasione di grazia condivisa, diventa il momento in cui siamo schiacciati dal nostro buio interiore. Se, solo per un istante, pensassimo al Buon Samaritano che, nonostante stesse percorrendo un lungo viaggio, ha dato tutto il tempo necessario a quell’uomo trovato per strada mezzo morto e… mezzo vivo e ci lasciassimo scuotere fin nell’intimo dal suo esempio, cambierebbero molte cose attorno a noi e in noi. Sì! Siamo tutti solo “mezzi vivi” se non incontriamo qualcuno che ci ama e qualcuno da amare. Solo la prossimità ci permette di passare dall’inumanità e dalla disumanizzazione dei nostri ambiti esistenziali, bloccati negli ingranaggi della sola efficienza, ad un clima veramente umano.
Ma è facile parlare di “incontri” con il rischio di fare della facile retorica. Occorre viverli e per viverli è necessario predisporsi, aprendo il cuore, e, mettendosi per via, abbattendo la distanza che spesso ci separa anche da chi ci è fisicamente vicino. Come ha fatto Maria…
Ci sono alcune caratteristiche della Vergine che vorrei facessimo nostre e che possono fare nostre perché anche la nostra diocesi di San Severo, imitandola, diventi sempre più capace di incontri, viva la gioia di incontrarsi nella verità, comprenda l’importanza di accogliersi come fratelli e dica, proprio in questa maniera, la gratitudine a Dio Padre per averci donato la dignità di figli.
Lei “si alzò” innanzitutto… Letteralmente “risorse”!
Si incomincia da qui… Se non si risorge dentro non possiamo vivere la Pasqua, né testimoniarla.
Chi non è risorto dentro, chi non ha la grazia che gli arde nel cuore come un fuoco incontenibile, non ce la fa ad alzarsi, nonostante tutta la buona volontà. Abbiamo tutti bisogno di guarire dentro, di ritrovarci, di ricomporre in unità le migliori forze interiori per trasformarle in dono. Tra noi credenti, quindi, non c’è l’organizzazione a monte, ma la vita nuova in Cristo, la rinascita nella grazia… solo dopo, ci si può alzare, indossando la veste del “discepolo missionario”, come ama affermare papa Francesco.
Lei, Maria, poi, “va in fretta” per raggiungere Ain Karim e mettersi a servizio. Sono chiare le sue priorità. Lei, appena ha saputo che sarebbe diventata la Madre di Dio, si è fatta serva degli uomini. Si scorge in lei, in anteprima, la corsa dei primi discepoli, la mattina di Pasqua. Nel suo passo celere è segnato anche il nostro ritmo di marcia. Per questo non sono ammessi rallentamenti. Ogni ritardo, infatti, è un’occasione d’amore mancata.
Non basta essere una chiesa in uscita, non basta scendere per strada ed essere “quelli della Via”, bisogna farlo “in fretta”. Per questo anche le nostre soste eucaristiche saranno sostenute solo dal pane non lievitato. Per noi, infatti, lo scopo ultimo non è solo mangiare e nutrirci, sia pur alla mensa eucaristica, quanto quello di vivere processi pasquali che ci facciano passare dalla morte alla vita, dall’odio all’amore, dalle ingiuste prevaricazioni reciproche ad una convivenza pacifica e accogliente.
L’ultima nota che, tra le tante che invece sono costretto a trascurare, voglio cogliere nell’episodio della Visitazione, è l’inscindibile unità tra la gioia e la lode al Signore Dio per ciò che compie e che scaturiscono proprio dall’incontro tra quelle due donne.
Hanno creduto all’adempimento delle promesse divine. Nell’incontrarsi hanno avuto la conferma che il Signore va molto al di là di ogni possibile aspettativa. Hanno scoperto che il modo migliore per porsi con un atteggiamento di fede davanti a Dio è la gratitudine. Hanno condiviso la loro gioia, hanno lodato il Signore insieme.
Che bel clima! Quanta serenità in quell’incontro! La luce di quel giorno raggiunge anche noi che, senza disagio alcuno, sentiamo di poter entrare in quella stessa casa con gli stessi motivi di gratitudine, con lo stesso canto di lode!
Il segreto di quell’incontro è semplice ed è accessibile a tutti: per assaporare la stessa gioia basta incontrarsi, riconoscersi come fratelli e confermarsi nella fede. La gioia e la lode siano anche il nostro distintivo, allora, perché, se non viviamo questo dinamismo virtuoso, ci condanniamo all’isolamento e alla tristezza. Senza la gioia della fede la chiesa si intristisce e, invece di essere lievito, trasmette delusione.
Vi chiedo, allora, in sincerità di cuore, di non perdere mai la gioia di incontrarci. Non facciamo mai prevalere il sospetto e la paura. Non abituiamoci mai all’altro perché ognuno di noi è sempre dono! Sempre! Facciamo dei nostri incontri, delle nostre visite il banco di prova quotidiano della nostra fede, dove, in fondo, non si chiede altro, non si chiede molto, solo la sincera e serena volontà di uscire da noi stessi. Incontriamoci sempre in semplicità, da veri fratelli. A volte, infatti, la distanza tra noi e chi ci sta accanto è troppa, lo sappiamo, e non si computa con i metri, ma da quanto cuore ci mettiamo.
E soprattutto quando un incontro ci fa soffrire, poniamoci come prima domanda: cosa avrei potuto fare di più e meglio? Cosa non ho fatto? Come potrò rimediare? Madre Teresa di Calcutta diceva sempre: “quando hai incontrato una persona domandati sempre se l’hai lasciata migliore o peggiore di prima”.
Solo una chiesa che mette al primo posto Gesù Cristo, sarà capace di mettere al centro le relazioni. Nella verità e nella carità. La Vergine del soccorso, verso la quale si esprime la filiale devozione dell’intera diocesi di San Severo, ci aiuti a riconoscere che il primo soccorso che lei, anche stasera, da vera madre, ci offre è quello di donarci suo Figlio, che riconosciamo e accogliamo ancora, con umile e sincera fede, come nostro Signore.
Permettetemi, infine, di rivolgere un saluto a chi, venendo dalla Diocesi di Otranto, mi ha accompagnato fin qui per sostenermi con la preghiera e con l’amicizia. C’è la mia famiglia, ci sono alcuni amici presbiteri, alcuni parrocchiani e alcuni amici concittadini: a ciascuno di voi un infinito grazie per ciò che siete nella mia esistenza. Portiamoci la serena certezza che le esperienze condivise fino ad oggi diventeranno una preziosa ricchezza che condivideremo volentieri con chi il Signore vorrà metterci sul nostro cammino.
L’intera comunità diocesana di Otranto, insieme con il suo Arcivescovo, Mons. Donato Negro, cui va la mia filiale e sincera gratitudine, per esprimere il legame con questa diocesi, è lieta di offrire a questa Cattedrale le reliquie dei Santi Martiri di Otranto, Antonio Primaldo e Compagni. Sono felice che da oggi anche la Diocesi di San Severo sia sotto la loro potente protezione. I Martiri di ieri e quelli di oggi ci spronino a configurarci a Cristo Signore che per primo ci ha donato il suo amore senza misura.
Un doveroso ringraziamento, infine, lo rivolgo al coro e a tutti coloro, sacerdoti e laici, che hanno preparato questo momento. Davvero grazie! L’organizzazione dei giorni passati, la cura di ogni aspetto e tutte le attenzioni che state mostrando fanno bene al cuore e mostrano il volto bello di questa nostra Diocesi.
Il Signore benedica ciascuno di voi!